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Se è vero - com'è vero - che Ungheria e rock progressivo sono tra loro soltanto lontani parenti, non può non suscitare un certo stupore il fatto che proprio un gruppo magiaro si sia reso autore, nel 1984, di uno dei dischi più belli del prog anni ottanta. Oggetto di questa considerazione è l'album di esordio dei SOLARIS, opera nella quale l'ispirazione palesemente fantascientifica - il concept è tratto da un libro di Bradbury, mentre il nome del gruppo è preso a prestito da Stanislaw Lem - è soltanto il pretesto per sviluppare dell'eccellente rock sinfonico strumentale, indiscutibilmente figlio degli insegnamenti dei grandi anni settanta. L'unico vero elemento futurista è quindi rintracciabile in certi suoni spaziali dei sintetizzatori, e se poi le mani che corrono sui tasti sono quelle di un tipo della fantasia e della personalità di Róbert Erdész, allora tutto diventa più facile, e gli altri strumentisti potrebbero in teoria anche limitarsi ad un semplice ruolo di accompagnamento. Rileviamo tuttavia con soddisfazione che sia le chitarre di István Cziglán che il flauto di Attila Kollàr rifiutano categoricamente la posizione di semplici comprimari: in particolare quest'ultimo, che con le sue sonorità acustiche consente la creazione di un'esplosiva commistione tra folk rock tulliano e musica elettronica, quasi un'ideale congiunzione tra passato e futuro. Nessuna caduta di tono, nessun appannamento pregiudica la piena riuscita dell'album, che scorre via potente e pomposo senza affaticamento alcuno, lasciando spazio a momenti di eccellente tecnica esecutiva ed a passaggi dalla perfezione formale esemplare; se vogliamo le uniche note parzialmente stonate di questa riedizione sono proprio le due bonus-tracks datate 1995 (in particolare la prima), che suscitano qualche legittimo dubbio circa il fatto che la recente riformazione del gruppo possa raggiungere portare ai risultati degli esordi. Staremo a vedere.
RM
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